L’anno I dell’era ecologica di Edgar Morin
La Terra dipende dall’uomo che dipende dalla Terra Armando Editore, 2007 In questa raccolta di saggi, che percorrono 35 anni di attività e di pensiero del filosofo e sociologo francese, Edgar Morin mette in luce le contraddizioni del paradigma cartesiano, che tende a semplificare e dividere in categorie, per affrontare l’era che viviamo, definita appunto ecologica. Un «paradigma di semplificazione - afferma Morin - che concepisce il mondo in unità separate, con il soggetto disgiunto dall’oggetto, lo spazio dal tempo, il pensiero dalle emozioni, e tuttavia ripreso dai tanti fautori del progresso industriale che ha modellato la nostra civiltà e, insieme, il declino ecologico contemporaneo, fino alla sconfitta della natura e a un suicidio, da diverse parti preconizzato, del genere umano». Un suicidio cui il genere umano potrà sottrarsi, mutando però paradigma ed agendo secondo il nuovo approccio, per cambiare il modello di riferimento. Nonostante infatti, si ponga con forza e venga riconosciuta in maniera più o meno unanime la necessità di un approccio globale nell’affrontare le problematiche del pianeta in questa era ecologica, è ancora il modello che appartiene al paradigma cartesiano quello ancora in auge, utilitarista e antiecologico.
Una visione globale del mondo porterebbe invece a concepire la realtà come una rete di sistemi che si relazionano continuamente, un ecosistema aperto e non chiuso, capace di evolversi ancora. «La relazione ecologica - scrive Morin - ci porta in breve a un idea apparentemente paradossale: per essere indipendenti bisogna essere dipendenti».
Assistiamo invece, in virtù del vecchio paradigma, all’allontanamento dell’osservatore dall’osservazione, della politica dalla polis e dai cittadini, della scienza dai problemi reali delle persone, della medicina dal malato e dalla salute e così via. Di fronte a tutto questo bisogna reagire, secondo Morin, e non (o non solo) per arginare catastrofi, per escogitare tecnologie meno inquinanti o sopperire all’esaurimento delle fonti fossili con quelle rinnovabili. Ciò che è necessario è una metamorfosi del nostro modo di pensare, una evoluzione del paradigma di riferimento, che si legge nello scorrere dei saggi. Il primo, “L’anno I dell’era ecologica”, che dà il nome alla raccolta e delinea il senso del ragionamento di Morin, è un articolo pubblicato nel 1972 su “Le nouvel observateur”, quando termini quali ecologia, ecosistema, biocenosi non erano conosciuti se non a pochi addetti ai lavori. Nel testo già traspare l’idea di infrangere l’incomunicabilità tra le diverse scienze naturali e umanistiche. Secondo Morin, è necessario invece liberare l’intelligenza umana dall’iper-specializzazione delle tecno-scienze che accumulano nozioni particolaristiche perdendo la visione globale, e in questo senso coglie l’aspetto unificante, per altri versi perfino totalizzante, dell’ecologismo, aprendo la strada a quello che sarà poi definito il pensiero complesso. I saggi successivi, “Il pensiero ecologizzato” (Le Monde Diplomatique, 1989) e “Il pianeta in pericolo” (Nouvel Observateur, 1990), ribadiscono gli stessi temi e ammonimenti, approfondendo il concetto della necessità di rivedere le questioni non da un solo punto di vista: «le prese di coscienza ecologiche ci portano a non astrarre nulla dall’orizzonte globale, a pensare tutto nella prospettiva planetaria». In questa prospettiva, scrive Morin, «la parola sviluppo deve essere completamente ripensata e resa più complessa. Eccoci al momento in cui il problema ecologico si ricongiunge al problema dello sviluppo delle società e dell’umanità tutta».
I due testi successivi, “Energia, ecologia, sociologia” (2003), un contributo al dibattito nazionale francese sull’energia, e “Oltre lo sviluppo e la globalizzazione” (2002), tratto da un discorso tenuto a Palazzo Nuovo a Firenze, ridiscutono la situazione mettendo in discussione il paradigma dello sviluppo tecno-industriale e facendo riferimento per la gestione delle risorse al contesto europeo e ai grandi vertici mondiali sull’ambiente (Rio, Johannesburg, Kyoto, … ). L’uomo è un sistema aperto – si sostiene - che vive una condizione paradossale di cui sembra non voler rendersi conto: è autonomo, distinto dalla natura, ma la sua autonomia si nutre della dipendenza dall’ecosistema che lo contiene. L’uomo e il suo mondo si alimentano di energia, che consente lo sviluppo tecnologico, ma anche di conoscenze e di principi organizzativi mutuati dall’ambiente esterno, grazie ai quali egli affina la sua cultura e afferma la sua posizione privilegiata. Eppure, la dipendenza dell’uomo dall’ecosistema è stato a lungo proprio il grande tema rimosso dell’Occidente, che nonostante tutto continua ad immaginarsi lanciato alla conquista della natura come un Cortes, un Pizarro o un Gengis Khan dello sviluppo. A favorire la disinvoltura di questo agire vanno aggiunte considerazioni sulla visione novecentesca di matrice positivista che ancora preconizza un’era all’apice delle magnifiche sorti e progressive, nella quale è il livello del progresso scientifico e tecnologico che rende evidenti i dati della realtà e, di conseguenza, automatiche e lapalissiane le scelte etiche. Per queste ragioni, scienza e tecnologia vanno fortemente sollecitate, oggi più che mai, a individuare i propri limiti e a dar conto dell’incertezza da cui sono attraversate. I due saggi finali, “L’imperativo ecologico”, un dialogo fra Edgar Morin e il giornalista Nicolas Hulot, e “I tre principi di speranza nella disperazione”, entrambi del 2007, spostano il discorso sul futuro, tenendo in conto dei fallimenti pratici e speculativi del pensiero ecologico degli ultimi trent’anni, ma senza perdere speranza di ottenere risultati. Quello che serve è la messa a punto di strumenti concettuali nuovi, idonei ad affrontare, fra ambiente, tecnica ed etica, i problemi congiunturali emergenti. Tre i principi che, suggerisce Morin, offrono motivo di speranza: il principio dell’improbabilità innanzitutto, dell’inaspettato (il caso inteso come imprevedibile ma non come ineluttabile ) che nel passato ha permesso di rivoltare il corso della storia, perché probabile e improbabile assumono contorni fluidi nel pieno della crisi. Il secondo principio sta nelle potenzialità umane ancora non espresse, o meglio inibite dalla cosiddetta civilizzazione, che per manifestarsi hanno bisogno di un innesco, ma che possono portare ad una vera rivoluzione del paradigma. «Einstein diceva che noi utilizziamo soltanto il 15% delle nostre capacità cerebrali - è una cifra arbitaria - scrive Morin - ma ci indica a mio avviso che siamo ancora nella preistoria delle spirito umano». Infine la possibilità di metamorfosi, che porti il pianeta dalla globalizzazione ad una società-mondo che faccia superare lo sviluppo in una idea di «una politica della civiltà e di una politica dell’umanità». «Siamo in uno stato di caos, uno stato agonico; ma voi sapete - conclude Morin - che la parola agonia significa lotta estrema tra le forze della morte e le forze della vita e che , paradossalmente, ciò che può apportare la morte può apportare la nuova vita. C’è dunque speranza di una metamorfosi delle nostre attuali società in una società mondo di tipo nuovo».
Una visione che ben si accosta all’attuale periodo di crisi, in cui per imboccare quella via, occorre che diventi prioritaria l’integrazione dei problemi di ambiente, scienza e democrazia in uno scenario comune, per individuare soluzioni non di tipo solo reattivo, con interventi specialistici e terapeutici che puntano al controllo della situazione, ma davvero capaci di intercettare e svelare apertamente le cause più profonde della crisi. Bisognerebbe cambiare via, però, e la via nuova che potrebbe emergere «è la via della speranza».